“Ci siamo conosciuti alla mostra di un’amica comune. Io c’ero per caso, lui per sbaglio.
Io guardavo le foto, lui cercava il prosecco.
Mi ha chiesto se quella che stava fissando fosse arte o una foto venuta male. Ho riso. Era una Polaroid di una scarpa rotta. Mi ha detto che gliene mancava una identica. Ho riso di nuovo.
Andrea era gentile, buffo, un po’ impacciato nel modo di muoversi. Un uomo da “scusa se ti sfioro”, con la faccia di chi non si prende troppo sul serio.
Mi ha chiesto il numero dicendo: “Così ti invito alla prossima inaugurazione di cantina.”
L’ho trovato fresco. Vero.
E poi, sinceramente, mi piaceva che non fosse uno di quei quarantenni finti trentenni che usano parole come “vibes” e “flow”.
All’inizio è stato bello. Risate, Netflix, messaggi la sera. Un caffè la domenica, senza pressioni.
Aveva un modo tenero di esserci, anche se un po’ distratto. Ogni tanto parlava della madre, ma con tono affettuoso. La “mamma” era sempre lì, sullo sfondo. Come una voce narrante.
“Sei allergica alle fragole? Perché mamma ci mette sempre la marmellata ovunque.”
“Mamma mi ha detto che dovrei portarti in quel posto che le piace.”
Poi è arrivato il pranzo.
Avevo invitato qualche amico, lui portava una torta. E fin qui tutto normale.
Solo che si è presentato… con sua madre.
Senza preavviso.
Come se fosse ovvio.
Come se una trentina di trentenni e una madre seduta in mezzo con la teglia di parmigiana fossero la cosa più naturale del mondo.
Io ho sorriso. E ho fatto spazio.
Ma da lì in poi, lo spazio è iniziato a diventare troppo poco.
E quella sera, quando ho chiuso la porta, ho capito che avrei dovuto dire qualcosa.”




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