“Non pensavo che a trent’anni sarei tornata a casa di mia madre.

Ma dopo la separazione, un lavoro sottopagato e un affitto che non potevo più permettermi, non avevo alternative. Lei mi ha detto “vieni, ci stringiamo un po’, ma ce la facciamo”. Invece è stato l’inizio di un altro incubo. Ogni giorno una frecciata, un commento sul mio aspetto, sul fatto che “alla mia età lei aveva già due figli e una casa comprata”.

E poi c’è Marco, mio fratello, due anni più giovane. Vive ancora qui, non paga niente, non fa niente. Ma a lui nessuno dice mai nulla. Quando rientra tardi, va bene. Se lascia i piatti nel lavandino, va bene. Se dorme fino a mezzogiorno, “è stanco poverino”.

Io invece, che sto facendo i salti mortali per rimettermi in piedi, vengo trattata come una fallita. Un peso.

Ho resistito settimane, sperando che cambiasse qualcosa. Che vedesse almeno lo sforzo. Ma niente.

Finché un giorno ho capito che non era una fase. Era un veleno. E non c’era più niente da salvare.

E allora mi sono alzata. Ho preso gli scatoloni. E sono andata via.

Anche se non avevo ancora dove andare.”

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