“Non so quando ho iniziato a sentire che questa casa non era davvero casa mia. Forse il giorno in cui ho scoperto che la suocera aveva la copia delle chiavi. O forse ancora prima, quando ho capito che per lei io non ero la compagna di suo figlio, ma un ospite temporanea. Una presenza di passaggio. Qualcosa da controllare, non qualcuno con cui costruire. Io e Mirko stiamo insieme da tre anni, e per un po’ mi sono raccontata che fosse normale. “È vedova, è sola”, mi dicevo. “Ha bisogno di sentirsi utile.” E così ho tollerato piccoli inviti non richiesti, commenti sulle mie abitudini, critiche velate sulla mia cucina, sguardi in tralice ai miei vestiti. Poi sono diventati ingressi in casa mentre non c’eravamo. “Vi passo a lasciare due cose.” Ma quelle cose erano sempre spostate, ordinate, ispezionate. Ogni volta trovavo un dettaglio diverso: un cassetto aperto, un oggetto spostato, un vestito mancante. E dentro di me cresceva una voce che diceva: Non è normale. Non è gentilezza. È controllo. Oggi quella voce si è trasformata in urlo. Perché quello che ha fatto, buttare i miei vestiti, le mie cose, i miei ricordi, non è stato un raptus. È stato un messaggio. Uno di quelli che non puoi ignorare. E adesso so una cosa: o metto un confine, oppure non avrò più una casa. Nemmeno una vita.”
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