Quando ho ricevuto il messaggio nel gruppo, ho pensato fosse uno scherzo.

“Serenata per Sara – 25 ottobre ore 21:00. Quota di partecipazione obbligatoria: 100€ a persona.”

Obbligatoria. Cento euro.

Ho riletto due volte per essere sicura di non aver capito male. Ma no, era proprio così: lo sposo chiedeva un contributo extra per la serenata, due giorni prima del matrimonio.

Diceva che era “un gesto simbolico”, “una forma d’amore condivisa”.

Peccato che d’amore, in quella richiesta, non ci fosse niente.

Avevamo già fatto la busta — duecento euro, in contanti, con tanto di bigliettino e auguri.

Ma a quanto pare non bastava.

Per poter “partecipare all’emozione”, bisognava anche pagare il prosecco, il coro e il videomaker.

E chi non pagava, restava fuori dal buffet.

All’inizio pensavo di ignorarlo, ma più leggevo le sue giustificazioni, più mi saliva il nervoso.

“Non è obbligatorio, eh… solo che chi non partecipa non potrà entrare al buffet.”

Eh certo, l’amore è libero… fino alla cassa.

Quella sera ho capito che certe persone non si sposano per amore.

Si sposano per incassare.

E che certe serenate andrebbero fatte solo al buon senso, non alla sposa.”

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