“Non sapevo più cosa fare. Martina, la mia bambina, aveva la febbre alta da giorni, e i medici temevano un’infezione ai polmoni. Ogni volta che lasciavo casa per andare in ufficio, mi sentivo un’egoista. Non volevo abbandonarla, ma il lavoro non lasciava scampo. Ho provato a parlarne con Claudio, il mio supervisore. Gli ho spiegato tutto: la malattia di Martina, la necessità di starle accanto, la possibilità di lavorare da casa per qualche giorno. All’inizio mi ha detto di sì ma poi ha cominciato a limitarmi sempre di più e io volevo una spiegazione. Mi rispondeva sempre con freddezza, dicendo che non potevano creare precedenti facendo eccezioni. Eppure, alcune eccezioni le aveva già fatte e continuava a farle, sempre. Paolo, il responsabile IT, è praticamente un’ombra in ufficio, e nessuno gli dice nulla. Marco, non ne parliamo. Ma per me, madre di una bambina malata, le regole erano inflessibili. Quella sera, mentre tenevo Martina tra le braccia e cercavo di calmarle la tosse che ha per via della sua polmonite, ho preso una decisione. Non potevo accettare questa ingiustizia. Non è stato facile, ma era necessario. Non solo per me, ma per tutte noi. E gli ho scritto.”

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