“Con lui stavo da due anni.
Due anni veri, non quelli leggeri delle foto sorridenti e dei “ti amo” facili.
Due anni fatti di abitudini, di chiavi lasciate sul tavolo, di pigiami condivisi e di silenzi che non avevano più bisogno di spiegazioni.
Ci eravamo conosciuti quasi per caso, a una festa di amici.
Io arrivata tardi, con una giacca troppo leggera per la stagione.
Lui che mi aveva prestato la sua senza dire niente, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Mi aveva colpita per quello: non cercava di impressionare, non alzava la voce, non faceva il brillante.
Sembrava uno che lasciava spazio.
All’inizio mi faceva sentire libera.
Poi, lentamente, aveva iniziato a spiegarmi chi avrei dovuto essere per restargli accanto.
Non in modo violento, non all’improvviso.
Con frasi piccole.
Battute buttate lì.
“Sei più bella quando sei più femminile.”
“Quella cosa non ti valorizza.”
“Io ti ho conosciuta diversa.”
Io ci avevo messo un po’ a capirlo, perché nel frattempo stavo cambiando davvero.
Mi sentivo stanca, compressa, sempre in difesa.
Avevo bisogno di muovermi, di sentire il corpo, di sfogarmi.
Quando avevo provato la boxe, quasi per gioco, qualcosa si era acceso.
Non rabbia.
Forza.
Eppure, ogni volta che cercavo di raccontarglielo, lui sentiva solo una cosa:
che non stavo più rispettando l’immagine che aveva di me.
Quella conversazione, iniziata come una sciocchezza al centro commerciale, è stata il punto di rottura.
Non per i guantoni.
Non per lo sport.
Ma per tutto quello che c’era sotto.
Perché a un certo punto non stava più parlando di boxe.
Stava parlando di chi avevo il permesso di diventare.
E lì ho capito una cosa semplice e terribile insieme:
non stavo cambiando io.
Stavo solo smettendo di rimpicciolirmi per lui.”
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